Quello della famiglia Masè è sicuramente uno dei nomi più noti dell’industria alimentare e della ristorazione triestina, che vanta una solida tradizione e una rete capillare di punti vendita cittadini. Originari di Strembo, un piccolo paese del Trentino situato nella Val Rendena, Angelo e Miradio Masè emigrano a Trieste – all’epoca fiorente porto dell’Impero Austro Ungarico – attorno al 1870, e avviano la loro attività aprendo un banchetto di salumi e carni in piazza della Legna (l’attuale Piazza Goldoni), prima di trasferirsi nel loro primo negozio nell’attigua via Gallina.
Miradio in seguito si staccherà dal fratello ed aprirà un buffet in Via Ghega, che in breve tempo diventerà il maggior rivenditore cittadino di birra Dreher. Nel primo dopoguerra Guerrino (figlio di Miradio) e Cesare (figlio di Angelo) aprono un salumificio a Barcola: per motivi di spazio, si sposteranno poi in via Fabio Severo, alla curva ribattezzata Masè. Nel corso degli anni Guerrino si separa dal cugino e, assieme agli altri fratelli (tra i quali Alfonso, padre di Tullio), torna a gestire il negozio di via Ghega.

È all’inizio degli anni ‘50 che Alfonso si trasferisce da solo in via Timeus, dove incomincia a lavorare assieme al figlio Tullio: quest’ultimo nel 1970, in seguito alle conoscenze acquisite durante le frequenti collaborazioni imprenditoriali con i colleghi di San Daniele, decide di dedicarsi alla produzione di salumi cotti. Nel 1996 la produzione si sposta nello stabilimento sito in Zona Industriale di Trieste.
I prodotti di punta e le loro peculiarità
L’azienda è sempre stata orientata alla produzione di salumeria cotta di qualità. Un obiettivo perseguito sia in termini di caratteristiche delle materie prime utilizzate che di tipologia di articoli offerti al consumatore finale.
Masè produce con metodi artigianali, utilizzando esclusivamente carni fresche accuratamente selezionate, e la gran parte degli articoli non contiene fonti di glutine, polifosfati, derivati del latte e glutammato. Affettati a macchina o tagliati al coltello ancora caldi come da tradizione triestina e mitteleuropea, i prosciutti cotti sono il fiore all’occhiello della produzione.
Masè e rappresentano un legame indissolubile con gli usi e i costumi propri di queste terre.

UNA BREVE STORIA DEL PRODOTTO
Il prosciutto cotto di Trieste è una combinazione di più culture e di più tradizioni agroalimentari, si pensi a quella friulo-padana dell’allevamento-macellazione-trasformazione del maiale, a quella nordica dell’affumicatura delle carni, quella orientale nell’uso delle spezie e degli aromi. Non è un caso che questo mix storico – umano – economico, in abbinamento ai tempi e modi della lavorazione della coscia, all’utilizzo del sale, aromi, spezie e soprattutto del legno, costituisce un modo tradizionale per la preparazione del prosciutto cotto ed affumicato, per una ricetta vecchia oltre un secolo.
Due ambientazioni storiche e sociali fanno rivivere e riscoprire il come e il perché cuocere la coscia di maiale, ricetta che lega a Trieste l’origine del prodotto:
- la campagna delle guerre napoleoniche che fa aprire in città durante la dominazione francese il “buffet” (che nulla ha che fare con l’omonima parola francese, seppur identica), tramite i Maurel, famiglia di vivandieri al seguito dell’esercito, che si fermò in città proseguendo il lavoro iniziato in guerra e dedicandosi alla ristorazione, proposero il prosciutto cotto alla maniera di Praga.
- tra la metà dell’Ottocento e fino a cavallo delle due guerre mondiali le ricche ed alto borghesi famiglie triestine si avvalgono di cuoche e donne di servizio, magiare, slave e boeme, le quali portano “in tavola” le loro tradizioni ed usanze gastronomiche.

La storia dell’affumicare “a Trieste” con i suoi sviluppi produttivi ad uso alimentare, documenta in modo originale un percorso autonomo strettamente collegato all’ambiente.
Non si sarebbe potuto apprendere questa tecnica, tipica dei paesi del Nord Europa o comunque “di montagna” che non potevano usare il sole per essiccare e conservare gli alimenti e dove il sale era scarso e quindi costoso, se la città non fosse e tutt’ora lo sia un porto tra i più importanti d’Europa.
Trieste malgrado sia un città di mare, ha seguito spesso i riti e i ritmi antropologici legati allo sviluppo della civiltà e dell’economia contadina: in tutto il litorale si allevava almeno un maiale all’anno, che offriva oltre al grasso per il condimento anche cibo in abbondanza, salvo uno dei prosciutti che si destinava alla vendita per procurarsi il denaro necessario all’acquisto di un altro maiale.
Le scadenze “delle feste di famiglia” trovano all’interno delle nozze, generalmente programmate tra la fine del vecchio e l’inizio del nuovo anno, e della Pasqua, un pietanza unificante che non doveva mai mancare: il prosciutto cotto o arrostito nel pane, servito generalmente con la pinza e cospargendolo con fiori di finocchio o con radice di rafano grattugiata.
L’usanza triestina della “merenda calda” – che con il tempo si è trasformata nell’attuale “rebechin”, ossia nell’inderogabile spuntino di mezza mattina – ha fatto sì che la specialità gastronomica trovasse la sua collocazione ideale nei molti locali che ancor oggi assecondano questo rito nella città che per secoli fu degli Asburgo.
In tali ambienti il prosciutto cucinato intero e completo di osso ha un ruolo di protagonista con le sue caratteristiche, immutate nel tempo, di morbidezza, succulenza e di estesi profumi.

QUALITA’ E TRADIZIONE
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